Nel mezzo dell’Asia Centrale, al confine tra Kazakistan e Uzbekistan, il mare d’Aral era il quarto lago più grande del mondo. Oggi, della sua superficie originaria, non resta che un misero 10%. Il resto si è trasformato in paludi, acquitrini e un’arida piana impregnata di depositi salini e sostanze tossiche. Il lago d’Aral rappresenta uno dei più tragici disastri ecologici causati dall’uomo. Il suo prosciugamento ha devastato interi ecosistemi, il clima della regione è stato stravolto, settori economici come la pesca azzerati. I venti soffiano sulla crosta sabbiosa che una volta era il fondo di un lago pescoso e sollevano polveri velenose che rendono impossibili gli insediamenti umani attorno al vecchio bacino, e arrivano fino all’Himalaya.
Un disastro di tale portata ha un responsabile: il cotone.
Negli anni ’60, il governo sovietico decise che l’URSS sarebbe dovuta diventare il principale produttore mondiale di cotone. La scarsa fertilità delle pianure desertiche richiese l’impiego massiccio di fertilizzanti chimici, diserbanti e pesticidi che, dilavati dalle piogge, si sono accumulati nell’invaso.
Per trasformare in campi coltivabili la steppa dell’Asia Centrale vennero realizzati canali di irrigazione che sottraevano acqua agli immissari dell’Aral. Privato di approvvigionamento idrico l’immenso lago evaporò.
Oggi, i tentativi di ripristinare il mare d’Aral si scontrano con l’immensa domanda di cotone per l’industria del fast fashion. Le nazioni interessate dal passaggio degli immissari del lago d’Aral: Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan perseguono infatti nella coltivazione intensiva di cotone a basso costo e alto impatto ambientale.
Forme, colori, decorazioni dell’abbigliamento cambiano di anno in anno, spesso di stagione in stagione. Le mode cambiano velocemente, e ancor più velocemente invecchiano, incapaci di interessare a lungo un pubblico con soglia d’attenzione sempre più bassa.
L’industria che risponde a questa vorace domanda di mercato ha bisogno di un costante afflusso di materia prima. Gliela fornisce la coltivazione intensiva di cotone a fibra corta (Gossypium hirsutum), spesso geneticamente modificato per adattarsi a condizioni di sviluppo non ideali. Il cotone a fibra corta cresce e matura rapidamente anche nelle vaste pianure asiatiche che necessitano di costante irrigazione artificiale. La scarsa qualità dei tessuti in cotone a fibra corta si trasforma in abiti che devono durare poco. Dopo qualche lavaggio si deformano, smungono, si ricoprono di antiestetici pallini o si smagliano. Ma che importa, tanto prestissimo andranno fuori moda e verranno rimpiazzati con i modelli della stagione successiva. A questo circolo vizioso sottostanno ormai anche molte grandi firme. Un tempo i capi delle maison più famose erano garanzia non solo di stile e innovazione, ma anche di qualità dei materiali, lavorazioni e finiture che si potevano ottenere solo in determinati distretti produttivi. Da molti anni non è più così. Con la globalizzazione, materie prime sempre meno costose viaggiano da un capo all’altro del globo, su inquinanti navi cargo, inseguendo il minor costo della manodopera per ciascuna specifica lavorazione a dispetto della qualità.
Non va certo meglio coi capi in fibre artificiali che possono avere un impatto sull’ambiente ancor più devastante.
Quando vedete l’immagine di una spiaggia deturpata da bottiglie e sacchetti o leggete della gigantesca isola di rifiuti che si è formata nell’oceano Pacifico, tenete a mente che quella non è che una minima percentuale delle materie sintetiche che inquinano il mare. Più del 90% della plastica dispersa negli oceani è costituito da micro e nanoplastiche. Particelle e fibre tra i 5 mm e i 100 nm di spessore. Quasi 200 milioni di chili all’anno di queste particelle microscopiche, tra il 30 e il 35% di tutto l’inquinamento da plastiche dei mari, provengono dal lavaggio di abbigliamento in tessuti di derivazione petrolifera: acrilici, poliestere, polietilene, poliammide. La frizione causata dalle lavatrici provoca il distacco di microscopiche particelle plastiche che, attraverso i tubi di scarico, finiscono nelle acque superficiali. La loro presenza è ubiqua, non c’è angolo della terra che ne sia privo. E sono destinata a durare per secoli.
Ad aggravare la situazione sono i metalli pesanti, gli antiossidanti e le altre sostanze chimiche presenti nelle tinture, nei trattamenti ignifughi e impermeabilizzanti, di cui sono spesso impregnate le fibre sintetiche e che da queste possono venire rilasciate nell’ambiente.
Le particelle di dimensioni più microscopiche entrano nella catena alimentare, sono facilmente assorbite dagli organismi marini e si accumulano in tessuti e organi vitali arrivando fino all’alimentazione umana. Subiamo ormai un’esposizione cronica e costante alle microplastiche, i cui effetti a lungo termine sono ancora poco conosciuti e studiati.
In mare, un tessuto in poliammide impiega dai 30 ai 40 anni per dissolversi. Uno in polietilene fino a 450 anni. Una maglia in lana ci mette da 1 a 5 anni per scomporsi in molecole elementari. Una T-shirt di cotone si dissolve completamente dopo 2-5 mesi.
La salvaguardia dell’ambiente richiede un ripensamento del nostro stile di vita.
Non basta portare con sé una borraccia da riempire con acqua di rubinetto per essere a posto con la propria coscienza ecologica. E’ necessario un cambiamento radicale di mentalità che interessi tutte le nostre scelte, incluso l’abbigliamento.
Non è però necessario andare in giro con un ruvido saio francescano per ridurre l’impatto che il nostro modo di vestire ha sulla natura e gli ecosistemi. Per tutelare l’ambiente senza rinunciare all’eleganza e raffinatezza bisogna tornare allo “slow fashion”, che implica un ciclo di vita più lungo per i capi di abbigliamento che acquistiamo. Capi a cui affezionarsi perché piacevoli da indossare nel tempo senza che ci stufiamo di loro o che passino di moda, ma sempre attuali nella semplice classicità dei loro tagli e colori.
In questo cambio di paradigma è fondamentale la scelta delle materie prime.
Un ciclo di vita più lungo necessita di materiali più durevoli, le cui caratteristiche permettano al capo d’abbigliamento di mantenersi bello e piacevole nel tempo, senza sbiadirsi, smagliarsi o perdere l’aspetto iniziale, ma anzi migliorando anno dopo anno, lavaggio dopo lavaggio, ammorbidendosi, al tatto e nelle sfumature del colore. Proprio come un grande vino che migliora con gli anni di affinamento.
Un cotone con simili caratteristiche deve avere una fibra lunga, come quella ricavata dalla varietà Gossypium Barbadense. A seconda della zona di coltivazione si trasforma nel pregiato filato Giza, Pima, Supima, Makò, Sea Island che Girelli Bruni utilizza per i suoi capi. Resistente, brillante, con una finezza che permette di realizzare filati in doppio ritorto, tessuti fittissimi, lisci, stabili, che invece di rovinarsi, con il tempo e i ripetuti lavaggi aumentano la loro bellezza.
Le fibre naturali non devono avere un impatto deleterio sugli ecosistemi dove vengono prodotti.
Il cotone a fibra lunga proviene da una pianta delicata ed esigente, che trova condizioni ideali di temperatura e umidità in poche zone della terra. Non richiede la devastazione di immensi ecosistemi per ottenere produzioni di massa ma di qualità scadente. Esso rappresenta meno del 10% della totale offerta mondiale. Ma d’altronde l’insostenibilità industriale è soprattutto un problema dei paesi sviluppati. Sono loro che prima di tutti devono ripensare il ciclo di vita dei prodotti. Incluso l’abbigliamento.
IT | 42 | 44 | 46 | 48 | 50 | 52 | 54 | 56 | 58 | 60 |
US | XXS | XS | S | M | L | XL | XXL | XXXL | 4XL | 5XL |
A (cm.) | 62 | 64 | 65,5 | 67,5 | 69 | 71 | 72,5 | 74 | 75 | 76 |
B (cm.) | 45,5 | 47 | 48,5 | 50 | 52 | 53,5 | 55 | 57 | 59 | 61 |